[Carocci, Roma 2016]
Con la raccolta di saggi, in numero di sei, che confluiscono in questo compatto volume, Matteo Di Gesù affronta un tema squisitamente “culturale” e al tempo stesso pienamente interno alla tradizione critica e letteraria: quello della Sicilia come soggetto, e al tempo stesso oggetto-laboratorio, di una “costruzione” culturale che passa per la letteratura, e non solo per quella cosiddetta creativa. Che la Sicilia sia anche una «invenzione», ossia una ricostruzione narrativa, una interpretazione retrospettiva operata dalla voce pubblica e dai letterati, è di fatto un dato poco controvertibile, utile, peraltro, solo se ci si libera di pregiudizi folklorici di ogni genere, positivi e negativi, e soprattutto parziali e intercambiablii. L’invenzione di una tradizione, ossia una ritualizzazione stereotipata del passato, è del resto, insegnava Eric Hobsbawm, un elemento della politica oltre che della storiografia. Solo dopo queste premesse, ossia dopo aver, per così dire, “laicizzato” la questione (e certo questo è il terreno su cui si muove Di Gesù), essa, ossia l’«invenzione», appare una chiave interpretativa lecita e fruttuosa, e anzi uno strumento necessario per rivedere, attraverso la letteratura, l’isola e la sua cultura, e in prospettiva anche quella italiana nel suo complesso. Giacché di “invenzioni” la Sicilia ne ha dovute subire tante, e quasi tutte a suo danno, anche e soprattutto quelle che l’hanno disegnata, nel tempo, come luogo di meraviglie. Sta qui il merito di numerosi scrittori (Verga in testa, come accade di solito, ma in buona compagnia) che partecipando a tale invenzione hanno operato in maniera da demistificare gli stucchevoli luoghi comuni che hanno riguardato la loro terra. Ed è anche il merito dell’indagine di Di Gesù, che ha affrontato e presentato figure e temi di primo piano anche se non sempre note a un gran pubblico. Lo studioso si colloca sulle tracce più fruttuose già lasciate da Sciascia saggista e narratore: ad esempio nel rilievo dato a Francesco Paolo di Blasi, protagonista suo malgrado di Il consiglio d’Egitto, certo, ma anche “in proprio” personaggio storico grande e tragico. O si veda anche come ricostruisca aspetti testimoniali del romanzo risorgimentale (storico o controstorico che esso sia valutato), a partire da eventi tutt’altro che romanzeschi ed edificanti della storia dell’Italia unita (il romanzo-saggio sull’assassinio Notarbartolo del comasco Paolo Valera ne è un esempio.) Inevitabilmente la mafia diventa una delle questioni centrali dell’immagine della Sicilia. Anche qui Di Gesù si rifiuta giustamente di accedere al repertorio stereotipato delle immagini dei mafiologi e dei giornalisti, che tende a ricondurre fenomeni sociali e politici al campo del costume o della “mentalità”. E così viene riletta, ad esempio, La chiave d’oro, novella che lega Verga a Sciascia (quest’ultimo ha, naturalmente la parte di maggior rilievo, essendo protagonista di almeno tre sui sei saggi presenti nel libro). A mio parere lo scrittore di Racalmuto forza qui un po’ troppo le indicazioni verghiane relative alla mentalità “mafiosa” (il Mastro-don Gesualdo mi appare in verità infinitamente più ricco di questa novelletta); ma non c’è dubbio che le pagine più fruttuose ed acute siano probabilmente quelle che leggiamo nel quinto dei saggi, dedicato al «”mafiologo” contro voglia» Leonardo Sciascia, principale “inventore” della Sicilia fra i letterati. A Sciascia Di Gesù attribuisce giustamente il merito di una lettura acuminata e certo tendenziosa, ma soprattutto antagonista di quell’«essenzialismo siciliano» di cui è stato importante esponente ed apologeta, ad esempio, un Pitrè (ma anche un Capuana, di fronte a Verga) e che molti danni ha fatto a Sicilia e siciliani.
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